giovedì 10 agosto 2006

locanda del lago

Il lago non c'è.
A cinque minuti dalla città un angolo di collina che ti fa sentire chissà dove.
Sembra di essere in vacanza.
Verde, tanto verde, gattoni e gerani, basilico e candele di citronella.
Fa quasi freddo.
Il gestore cubano con la faccia da schiaffi esibisce il suo fascino e il suo sguardo ironico, il suo sorriso ampio e brillante.
L'altro ragazzo gentilissimo pare uscito dal mondo degli uomini "veri e responsabili".
Mi ricorda Attilio e i suoi fratelli.
A Bo mancano questi uomini.
Pare ci siano solo "ragazzi". Ragazzi di quaranta e cinquant'anni.
Noiosi. Inaffidabili. Senza la gioia del giovane, senza la solidità dell'uomo, senza il fascino della virilità, senza la capacità di giocare con l'ironia. Presi dalla loro mania di rimanere infantili.

A. e S.
Le osservo. E capisco, per la prima volta, che l'affetto che provo per S. non mi fa vedere quello che vedono gli altri: un'anima in pena, piena di tic nervosi e stato vitale "basso".
A. racconta un episodio spassosissimo. Lo fa per sfogarsi e per scioccare S.
Un neonato di uccellino caduto dal nido.
Una signora distinta di un matrimonio-A. ha un agriturismo- la convoca perchè si occupi del fatto.
Lo fa. Prende con sé il gatto- Quattrosoldi ndr- e gli regala il piccolo bebé da sbranare.
Imita i rumori del lauto pasto sotto gli occhi spalancati di S.
Imita la voce della signora che cerca di protestare quando viene a sapere.
Racconta di una telefonata dal Brasile in cui i figli della cameriera del ristorante la accusano di essere un'assassina.
Ride. Ridiamo fino alle lacrime.
Lo scopo è raggiunto: S. è ammutolita. Non ci espone più il suo stato di depressione e le sue preoccupazioni per il suo non-ancora-iniziato flirt con lo sconosciuto incontrato due volte.

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