martedì 4 giugno 2013

Genitori e figli

I miei genitori si amavano. Molto. Non si capivano e non si conoscevano.
Erano, sono, molto diversi.

Sono entrambi menti veloci e dalla sensibilità profonda ed elastica.
Conoscono molte cose e molte culture.
Sono allegri e divertenti, in maniera molto diversa.

Mio padre più rigido e compassato. Mia madre in modo disordinato e fantasioso.

Hanno lottato per anni.

Con le rispettive famiglie.
Fra di loro per le rispettive famiglie.

Per la loro, la nostra famiglia.

Per sopravvivere, per riuscire ad ambientarsi nelle varie città e nei vari ambienti.
Fra di loro, credendo che il problema fosse la mancanza di impegno dell’altro.

Per noi figlie. Per la nostra educazione, per la nostra libertà e per il nostro futuro.

Per svincolarsi l’uno dall’altro.
Per districarsi dal dolore e dai vizi dell’altro.

Si sono fatti del male.
Tanto.

Lo hanno fatto a noi.
Tanto.

Sono crollati, prima l’uno, poi l’altro. Si sono ripresi. Insieme.

Sono crollati ancora. Ognuno per la sua strada.

Hanno perso il controllo.  Sono fuggiti.
Lontano da noi. Anche.
Se ne sono lavati le mani.

Prima l’uno. Poi l’altro.
Poi entrambi.

Hanno detto frasi terribili. Hanno fatto azioni terribili.

Hanno mistificato e strumentalizzato gli avvenimenti.
Hanno lottato con noi. 
Terribili. Entrambi.
Hanno provato a rimediare.

Sono diventati nonni. Non erano pronti.
Ci hanno provato.

Non sono mai stati buoni genitori, sono dei nonni come possono.
Male.





La prima ingiustizia

Ho scoperto l’ingiustizia in prima media...

Scrivo un tema sul rientro di Ulisse ad Itaca. Scelgo l’incontro con Argo, il cane che lo riconosce, la commozione del loro incontro dopo anni di assenza del padrone. Sono felice del tema e lo svolgo con passione. Lo consegno fiera del risultato.


A pranzo comunico a mia madre di aver fatto uno splendido tema.

Un paio di giorni dopo, in classe, l’insegnante, Donna Alotto, moglie del preside, austera donna che mi ha insegnato le basi della grammatica e mi ha regalato l’amore per la cultura, comunica i risultati del compito.

Aspetto il mio turno emozionata. Rimaniamo, ultime, la mia vicina di casa e amica ed io.
Silenzio inspiegabile poi ci ordina di alzarci in piedi. Tutti ci guardano sorpresi, è una modalità nuova.

il mio nome, quasi urlato: due.
il nome della mia compagna: due.

Sconvolta chiedo perché e mi viene risposto di non essere arrogante, l’arroganza è peccato mortale. Insisto, tremante.” Vergognati”, è la risposta. Ormai in lacrime, di rabbia, non demordo.

L’accusa è di aver copiato. Per entrambe. Insisto, è farina del mio sacco.
Anna ha copiato da un libro che aveva in casa, lo so.

Ma non mi riguarda. Non ho dubbi in proposito. Alla fine mi alza il voto ad un insulso cinque e mi insulta dicendo che mi resterà sulla coscienza avere avuto un voto più alto della mia amica per via delle proteste che ho osato fare.

Non ho paura, le chiedo copia del tema da portare a mia madre. Sono decisa. Lo faccio.
Il tema finisce in presidenza, ricordo i tacchi di mia madre lungo il corridoio.
Il due poi cinque diventa un nove. Con le scuse del preside.

Da quel momento Donna Alotto mi controllerà a vista. Senza sorrisi e senza chiarimenti.

All’esame di terza media sarò l’unica che dovrà portare a memoria stralci della Divina Commedia. Pagine e pagine. Tanto Dante mi è sempre piaciuto, tanto.

Racconto di un sogno antico

Ti picchio così forte che ti mando in ospedale.


Scende nello scantinato dell’albergo dove lavora a cercarla, non è sicura sia scesa lì. Sente intanto la voce del suo capo che entra dall’ingresso al piano di sopra e chiede di lei.

Intontita, indecisa, entra nel guardaroba e la vede seduta in terra a gambe incrociate, con un lenzuolo sulla testa. I piedi nudi, quei suoi piedi grossi e callosi, pieni di botte e segni buttati in fondo alle gambe sottili senza tonicità. Gli occhi sono tondi e finto innocente, stupiti e spalancati in modo innaturale, recitano e allo stesso tempo sono quegli occhi da bambina capricciosa e fragile che da troppi anni sopporta. E la guardano con finta innocenza, con aria che simula l’indifferenza. Il collo è piegato, le spalle curve, ossute con quella canottiera molle e il pantalone troppo largo. Ha qualcosa in mano, una candela? Cerca di dissimulare. Non dovrebbe stare lì, si è intrufolata non si sa bene perché. La guarda senza parlare, lo vede dal suo sguardo che le solite giustificazioni non servono, non oggi. La vede fragile e violenta, quella schifosa abitudine di sbatterle in faccia il suo male di vivere e la sua insistenza nel essere la sofferente che non rispetta niente e nessuno. Che non accetta il suo ruolo, che si insinua nella vita dei suoi figli obbligandoli ad essere tolleranti con il suo modo di vivere, a vivere in continua apprensione e senso di colpa. Entra e si ferma un istante. Intorno ci sono le attrezzature dell’albergo. Il silenzio è terribile. Sopra si sentono le voci della sua vita lavorativa, del suo tentativo di integrarsi nella vita comune, ordinaria. Dove gli altri lavorano come lei e tentano come lei di trovare la loro strada. Dove lei cerca di essere normale, affidabile, brava e meritevole di stima e fiducia.

Lo sguardo fiacco e debole ha quell’aria di sfida reso duro da anni di lotta senza vincitori e vinti. Dove tutti soffrono e tutti si fanno del male a vicenda.

Si avvicina. La guarda fisso sperando che cambi espressione, per una volta, che decida di cambiare atteggiamento, che si rivolga a lei in modo diverso, quello che aspetta da sempre. Non lo fa.

E vede improvvisamente rosso, sente l’inutilità dei suoi sforzi, la stanchezza di risorgere ogni volta dalle sue ceneri. E, senza saperlo, senza capirlo, in un attimo è china su di lei che le urla “ti picchio così forte, così forte che ti mando in ospedale”. E le mette le mani sulla testa e inizia a picchiare duro, forte e disperato, senza fermarsi. Più sente il contrasto fra la fragilità delle sue ossa e la pienezza piena dei suoi muscoli, più si accanisce nel lasciare cadere le sue mani con forza su quel corpo che, ora anziano e debole, con il fatto di esistere le da così fastidio. Picchia forte immaginando di poterlo dissolvere, di poter spegnere quello sguardo bisognoso che non sopporta più, sperando di poter finalmente cambiare le cose una volta per tutte, per poter cancellare quella preoccupazione per il benessere di una madre che in tanti anni le ha fatto tenere il fiato sospeso, la vita sospesa, il cuore lacerato.

Ti picchio così forte che magari riesco a farti sparire.

A dimenticare che tu esista, a smettere di cercare il modo di convivere con te e il tuo fantasma di donna, a smetterla di cercare un equilibrio fra la mia paura che ti succeda qualcosa di male e il mio amore che non so come gestire e il tuo disamore che mi fa ancora tanto male anche se non vorrei.

Ti picchio tanto forte che la mia vita, questa che non sopporto più, che non so come aggiustare e curare, sparirà in un istante perché niente potrà essere come prima dopo che ti avrò picchiata. Perché tu sarai morta. O tu sarai distrutta e malata. E io sarò pazza e non avrò più paura di impazzire. E io perderò il lavoro e la mia vita normale prima che sia tu a distruggerla. E io dovrò scappare e lasciare tutto, anche la mia speranza di avere qualcosa di felice e rassicurante, anche il mio sforzo per essere serena e libera e positiva e buona ed efficiente. Perché ti avrò picchiata così forte che non ci sarà possibilità di fare finta di niente, perché perderò tutto, questo tutto di cui non posso fare niente e che mi fa sentire inadeguata. E sarò finalmente libera, libera da te e da tutti quelli che hanno bisogno di me, di quell’immagine di me sobria e gentile e allegra che riesce a sopportare tutto senza impazzire. Ti avrò picchiato tanto forte che per la vita che mi resta non avrò più rabbia da sfogare o timore di sbagliare, che non potrò avere speranza di essere innocente. Finalmente sarò libera di non essere quella che ragiona, quella che ascolta, quella che non fa stupidaggini, quella che si sforza di comportarsi bene. Sarò finalmente un’altra persona e potrò ricominciare dalla fine della mia vita piena di rancore e impotenza. Perché è l’impotenza che crea il mostro della solitudine, l’orco del moralismo, la paura dei propri passi e dei propri pensieri. Perché se tu ci sei io sono sempre legata a te. Perché tu sarai sempre diversa e inadeguata al mio sogno di pace e amore, perché tu mi farai sempre da specchio, specchio della comunicazione come sembra e non è, dell’amore come finge di essere e non è, dell’intelligenza che parla, parla, sentenzia e distrugge, umilia, tortura, affligge.



Ma io non lo decido, non lo analizzo, non cerco di essere fedele a me stessa.

Ti picchio forte, fortissimo e ti lascio lì. E me ne vado a dimenticare me stessa e te, soprattutto te.